La regina rossa

Sessant’anni fa, Ferrari svelò la 250 GTO, una vettura stradale da corsa destinata a diventare l’auto più desiderata del mondo. Doug Nye si ritrova con una vecchia amica.

Da "Motor Sport", Marzo 2022 - Testo di Doug Nye, traduzione di Giovanni Malvicini

Sessant’anni fa venne lanciata una vettura considerata da molti come l’auto da corsa stradale più grande di tutti i tempi.

E proprio in questo mese – Marzo 1962 – fece il suo debutto nelle competizioni.

Fu l’inizio di un viaggio che portò la Ferrari 250 GTO a diventare l’auto da collezione con il maggior valore su scala mondiale, ma anche ad acquisire un’aurea mitica, che occupa un posto a sé stante non solo nel pantheon dei leggendari purosangue di Maranello, ma anche tra tutte le automobili classiche.

Una delle ragioni è la sua rarità: esistono ancora solo un pugno di esemplari in condizioni originali.

Pertanto, provarla su strada per sperimentarne le caratteristiche uniche è destinato a rimanere un sogno per tutti, salvo pochi favoriti dalla sorte.

E’ per questa ragione che mi considero molto fortunato ad aver percorso centinaia di chilometri di puro motorismo d’altri tempi al volante della 250GTO.

L’esemplare raffigurato in queste pagine appartiene da quarant’anni all’ex-corridore Paul Vestey. L’abbiamo utilizzato molte volte nell’ Adelaide Rally, a Goodwood, o semplicemente facendogli sgranchire le gambe su strada.

E’ il telaio n. 4115GT, il cui primo possessore fu l’appassionato tedesco Hermann Cordes.

Debuttò in una gara in salita nel Marzo 1963; fu primo assoluto in una gara di secondaria importanza ad Hockenheim; giunse secondo alla gara per vetture GT dell’AVUS, prima di essere venduto all’ architetto / playboy Manfred Ramminger.

Durante il 1964, Ramminger condusse la vettura al successo di classe in competizioni minori a Mainz-Finthen ed all’AVUS; la vendette successivamente a Werner Lindermann di Duisburg, per la stagione di gare 1965, dove vinse la propria classe in competizioni non primarie al Nurburgring ed all’AVUS e riportò un secondo posto di classe e 23mo assoluto alla 1000Km del Nurburgring, in coppia con Ramminger.

Quest’ultimo fu successivamente condannato come spia al servizio del KGB russo, avendo trafugato nel 1967 un missile Sidewinder da una base americana in Germania, per spedirlo a Mosca. Lo fece passare su una carriola attraverso un foro nella recinzione, lo caricò sulla sua Mercedes station wagon e, resosi conto che era troppo lungo per consentire la chiusura del portellone, spaccò il lunotto, in modo da consentire alla parte anteriore del missile di fuoriuscire, fissando su di essa un pezzo di tappeto per segnalare l’ingombro, in ottemperanza alle norme del codice della strada tedesco…

Da Ramminger, la 4115GT passò allo svizzero H.P. Burkhardt e quindi a Bob Roberts per il suo Midland Motor Museum di Bridgnorth, nello Shropshire. Neil Corner l’acquistò nel 1978 e la vendette al comune amico Paul nel 1981, che l’ha accudita ed impiegata da allora, percorrendo oltre 50.000 miglia.

E così, con 60 anni di vita alle spalle, guidiamo la 4115GT.

L’apertura della porta della GTO è abbastanza limitata, stretta per una persona di taglia normale.

Le chiusure delle porte hanno una piccola linguetta davanti al pulsante.

Lo premete, piegate il vostro dito indice attorno alla linguetta e la porta si apre.

Ovviamente, pannellatura di alluminio leggero e rivestimento interno nero.

C’è un’ampia tasca per sistemare cartine, road-books, ecc, una maniglia cromata ed un cavetto di chiusura, proprio come nelle prime Mini Minor.

In questo esemplare, cha ha la guida a sinistra, è meglio far scivolare prima il ginocchio destro al di sotto della corona in legno del volante, altrimenti, dopo, non vi è spazio a sufficienza per sistemare le gambe.

Lo schienale del sedile avvolgente – rivestito in tessuto blu – è inclinato verso la parte posteriore e si adatta confortevolmente alle scapole.

E’ un bello sforzo sistemarsi sino all’altezza delle ginocchia dietro il famoso, sottile volante in legno con lo stemma giallo e nero del Cavallino Rampante, ma – una volta dentro – è tutto molto comodo. Allacciamo con uno scatto le cinture di sicurezza a quattro punti.

I pedali sono leggermente spostati a sinistra, verso l’esterno della vettura, mente il busto è piazzato perfettamente verso l’anteriore.

Nella maggior parte delle auto, i pedali sono orientati verso destra, per allontanarli da invasivi passaruota anteriori, ma nella GTO si è seduti bene all’indietro, tra gli assali: i piedi sono collocati dietro il passaruota anteriore, mentre lo schienale del sedile è ben fermo contro la parte anteriore del passaruota posteriore.

Insieme al motore, installato in posizione anteriore arretrata ed al cambio, la massa del pilota è centralizzata il più possibile.

Guardiamoci intorno. Il finestrino scorrevole in due metà è in perspex, mentre il parabrezza, molto inclinato, è in vetro laminato.

La griglia di selezione delle marce, inscatolata in alto, sul tunnel centrale, con la sua maestosa leva curvata all’indietro ed il pomo tornito, domina l’abitacolo, invita all’uso.

L’escursione è lunga – quasi tredici centimetri da tutto avanti a tutto dietro – ma è incredibilmente efficace, con giochi minimi ed è soggetta al carico di una molla che la posiziona al centro della griglia di selezione.

Nel caso di posizione di guida a sinistra, la marcia indietro è verso il pilota, in avanti, con una minima pressione per vincere la resistenza della molla; la prima è direttamente all’indietro, in basso a sinistra. La seconda è in avanti, forzando leggermente in diagonale, verso il centro. La terza è dritta all’indietro; la quarta nuovamente in avanti in diagonale e la quinta dritta all’indietro.

Con i pollici agganciati al volante, se estendo l’indice della mano destra in tutta la sua lunghezza, tocco il pomo della leva del cambio, la cui posizione elevata enfatizza l’impressione di essere seduti in basso e di doversi allungare verso l’alto per cambiare marcia.

Gli strumenti sono posizionati perfettamente.

La visibilità complessiva è molto buona, sebbene le parti posteriori creino angoli ciechi che – su una vettura con guida a sinistra – danno fastidio sulle rotatorie e gli incroci Inglesi, salvo non riuscire a posizionare l’auto in maniera precisa.

Adesso, azione!

La chiave di accensione è alla destra del cruscotto, sulla plancia degli interruttori.

Pompo sull’acceleratore, ruoto la chiave, si accendono le spie, premo la chiave, si inserisce il motorino di avviamento.

Suona più come l’avviamento di un aereo, anziché di un’automobile, un potente, equilibrato lamento, mentre quei piccoli dodici pistoni iniziano a percorrere su e giù la loro corsa; i due spinterogeni gemelli, subito al di la della paratia tagliafuoco, accendono le loro scintille ed il più famoso bialbero dodici cilindri a V prende vita. La GTO è più rumorosa all’interno, che all’esterno.

Premo la frizione – leggere e progressiva – leva del cambio indietro in prima e via.

Accelero, dentro la seconda; leva nuovamente indietro in terza, dentro la quarta e tiro in quinta.

E’ proprio una situazione da “ciao, vecchia amica, come va ?”

Su strada la GTO è piacevolmente docile – nonostante il rumore e le grezze vibrazioni al di là degli standard moderni (e per questo molto amate da ogni appassionato pilota dal sangue caldo) – gentile, mai invadente.

L’eccitante tumulto delle camme e degli ingranaggi della distribuzione, l’urlo degli scarichi riempiono l’abitacolo. La conversazione con il passeggero è una sfida, anche a velocità minima.

Probabilmente, tra le caratteristiche più gratificanti – oltre alla dominante leva del cambio, che esce dalla sua griglia sopraelevata – c’è la frizione, delicata e graduale, seguita da vicino dallo sterzo, preciso, sensibile senza indebiti contraccolpi.

Ma non c’è dubbio che il pezzo più straordinariamente impressivo è il motore dodici cilindri a V.

Immaginatevi seduti al volante: la leva del cambio, alta alla vostra destra, l’ergonomico cruscotto dritto davanti a voi ed attraverso il parabrezza inclinato, ecco le voluttuose curve del cofano e dei passaruota.

Veleggio su strada aperta, in quarta, a poco più di sessanta all’ora, un filo di gas, come un caccia a pistoni in fase di rullaggio.

Un tocco delicato sul gas e la vettura accelera, progressiva, da 2500 giri.

Strada libera: ecco, è il momento.

Tiro indietro la leva del cambio, folle, leggermente verso di me, ancora indietro, terza e giù tutto il gas.

Salendo oltre i 4000 giri nulla di sensazionale, solo una costante spinta in avanti.

Ma non pensiate che dopo tutto questo trambusto, si tratti soltanto di un vecchio 3 litri 12 cilindri a V di sessant’anni. Sino ad ora, non avete neppure graffiato la superficie delle sue capacità.

L’andatura diventa più fluida, mentre la Ferrari accelera.

Quando l’ago del contagiri assume una posizione verticale raggiungendo i 5000 giri, è come premere un interruttore. La potenza si impenna, ma non bruscamente, non la carica esplosiva che potrebbe produrre un mezzo moderno, ma solo un rapido, inarrestabile rafforzamento della spinta impetuosa nella schiena.

Il canto nitido del V12 dagli estrattori SNAP si indurisce all’improvviso, sviluppa uno strascico pesante e cremoso, mentre il collo inizia a piegarsi all’indietro.

Adesso le siepi si allontanano in un lampo. Il battito aumenta, il rumore è assordante. C’è una nota che sale, sembra nella vostra testa, un urlo crescente e risonante. Ed i finestrini in plastica iniziano a vibrare.

A 6000 giri, il retrotreno sembra abbassarsi verso l’asfalto, sebbene la rigidità delle sospensioni e gli ammortizzatori duri lo permettano solo in minima parte.

Adesso accelera come una furia, con l’ago del contagiri che sale rapidamente oltre i 6500 giri verso i 7000. Cambio di marcia, spinta in avanti a destra e la leva scivola in quarta.

La corona di legno del volante, stretta leggermente tra le dita della mano sinistra, sembra cantare le note nitide dell’esuberante, corsaiolo V12, mentre rilascio il gas, innesto la quarta ed il motore riprende a spingere, con risposta istantanea.

Più velocemente alimenti il V12, più lo senti affamato.

La vettura sembra rintanarsi verso il basso – probabilmente un effetto aerodinamico – con un’andatura levigata.

Chiaramente, siamo sul pianeta GTO: la coppia continua a salire avvicinandosi ai 7000 giri, la strada scorre sfocata.

Ed il rumore!

Un urlo risonante, variegato riempie l’abitacolo e la pelle delle guance trema in sintonia. La nota si blocca per un secondo al cambio dalla quarta alla quinta, la vettura accelera ancora, l’ago del contagiri sale, sembra di essere sufficientemente veloci, di aver raggiunto la vetta.

Ma i piloti veri, su piste vere, raggiungevano anche gli 8000 ed oltre 270 chilometri all’ora.

Questa amabile, vecchia signora è l’antitesi di qualsiasi sibilante auto elettrica.

Quando guidai la GTO per la prima volta, quarant’anni fa, scrissi che “…il rumore è indescrivibile ed i tappi per le orecchie indispensabili…”.

Adesso, la mia sordità li rende superflui.

Ma non ho idea di come facessero i navigatori del Tour de France Automobile a parlare con i propri piloti.

Il motore spinge imperturbabile. Il cambio infonde una tale sicurezza che sembra sussurrare “24 Ore di Le Mans”, oppure “Tour de France”, da quanto incoraggia all’uso.

L’impianto frenante a quattro dischi è ragionevolmente potente per gli standard del 1962, ma non particolarmente impressivo oggi.

Per le mie capacità di guidatore, la maneggevolezza del telaio mi colpisce sempre favorevolmente, l’auto è stabile e reattiva, messa a punto correttamente, sensibile all’acceleratore ed allo sterzo, meravigliosamente “sensoriale”.

Nelle curve strette è molto facile avere sottosterzo in inserimento, così come è facile rimediarvi con l’acceleratore.

E’ tutto molto ben bilanciato, disponibile, utile: la GTO è la tua compagna, non la tua avversaria.

La mia immagine più vivida della GTO è quella in cui la guido, di notte, lungo la veloce, scorrevole A303, in aperta campagna, con i fari ambrati che sondano l’oscurità davanti ad essi e il profilo ad M, ampio ed indefinito, di quel famoso cofano che si staglia nel loro bagliore.

Quel ricordo – il canto del 12 cilindri, l’equilibrio da pelle d’oca di un telaio classicamente d’epoca, mentre affronta curve ad esse da 120-130 km/h, il ritmo muscoloso con cui l’auto si catapulta su lunghe e ripide colline, l’urlo baritonale delle scalate nella notte, su strade asciutte e deserte – ha sempre convissuto con me.

Non si può sbagliare: c’è veramente della sostanza nella leggenda della GTO.

Non lo si può mettere in dubbio, nonostante tutte le vittorie nel periodo 1962-1963 siano state ottenute senza un rivale davvero agguerrito. (Cfr. Commento)

Nella 250 GTO – forse più per caso, che per intenzione – i pianeti semplicemente si sono allineati.

Ed è per questo che la leggenda vive.

Commento

“Dopo averci fatto salire con lui a bordo della GTO, ed emozionare con l’avvincente descrizione di cosa significa guidarla, Doug Nye conclude il suo articolo con parole che lasciano perplessi. Soprattutto, perché provengono da uno storico di motorismo di fama mondiale.

Senza avere la pretesa di rivaleggiare con un’eccellenza di tale livello, credo tuttavia si possa affermare con ragionevole obbiettività che non è condivisibile l’affermazione secondo cui:

“…nonostante tutte le vittorie nel periodo 1962-1963 siano state ottenute senza un rivale davvero agguerrito….”

In realtà, gli avversari c’erano, agguerriti lo erano ma, per limiti tecnici e di affidabilità, per ben tre anni di seguito, 1962 – 1963 – 1964, non sono stati in grado di battere la GTO nel Campionato Internazionale Marche, riservato in quegli anni alle vetture GT.

Ricordiamo sinteticamente chi erano: Jaguar E Type “Lightweight; AC Cobra Roadster e Hardtop Coupé; Aston Martin DB 4 GT Zagato e DP 214; Chevrolet Corvette.

Alcuni modelli furono allestiti specificatamente, con dispendio di risorse, nell’ intento di sconfiggere la Ferrari GTO e con motori di cilindrate superiori a quello della vettura di Maranello.

Traguardo mancato, con la conseguenza di convincere alcuni costruttori a non proseguire oltre (Jaguar ed Aston Martin), mente altri (Shelby) raggiunsero una competitività all’altezza della GTO solo nel 1964, con la AC Cobra Daytona coupé motorizzata Ford.

Per quanto avversaria temibile, quest’ultima non riuscì ad aggiudicarsi il campionato 1964 e registrò varie sconfitte pesanti ad opera della GTO, tra cui quella nel leggendario Tour de France Automobile, in cui le Ferrari occuparono i primi due posti assoluti, oltre a posizioni minori, mentre l’intera squadra di tre Shelby AC Cobra Daytona ed una “roadster”, si ritirarono per problemi tecnici.

E’ bene ricordare che nel caso della Cobra Daytona, l’avversaria dichiarata da battere era proprio la GTO, di cui la vettura americana seguiva l’impostazione costruttiva, con l’intento di diventarne un’evoluzione vincente, riuscendoci solo nel 1965, quando finalmente conseguì la vittoria nel campionato mondiale.

Ma nel frattempo, Ferrari aveva già abbandonato la GTO al suo destino, sia perché impegnato nel contenere l’ascesa della Ford nella corsa al titolo assoluto Prototipi, sia perché aveva compreso che l’evoluzione vincente delle vetture GT da competizione non poteva ricalcare le orme della GTO – a conferma che chi copia è sempre un passo indietro – ma doveva essere un’altra cosa.

E quell’ “altra cosa”, nelle intenzioni di Maranello, era la 250 Le Mans. In realtà, le vicende non andarono come Ferrari avrebbe voluto, ma questa è un’altra storia.”.

Giovanni Malvicini